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ToggleVi siete mai chiesti come mai elettrodomestici, utensili e altri oggetti di uso quotidiano dei nostri nonni vengano tramandati di generazione in generazione ancora funzionanti mentre quelli odierni sembrano avere vita breve?
La cosa sembra paradossale considerando l’immenso e costante progresso tecnologico e industriale dell’ultimo secolo, eppure la risposta è da ricercare in due semplici parole: obsolescenza programmata.
Quest’ultima non è altro che una strategia aziendale che prevede una sorta di “data di scadenza” per ogni prodotto creato, grazie all’utilizzo di componenti di bassa qualità o facilmente deteriorabili.
Ma da dove nasce l’obsolescenza programmata? Scopriamolo insieme.
Obsolescenza programmata: la storia
Che ci crediate o no, il primo esempio di questa pratica risale a circa un centinaio di anni fa, cioè a quando, nel 1924, il Cartello Phoebus (un agglomerato di diversi produttori di lampadine) impose un calo drastico della durata medie delle lampadine per aumentarne le vendite, passando dalle precedenti 2500 ore di vita ad un massimo di 1000 ore.
Tuttavia la definizione “obsolescenza pianificata” comparve su carta solo qualche anno dopo grazie all’agente immobiliare Bernard London;
quest’ultimo la considerava l’unica opzione efficace per far ripartire l’economia dopo la crisi del 1929, tanto da insistere affinché diventasse una legge vera e propria, ma senza successo.
Un paio di decenni più tardi il concetto di obsolescenza programmata evolve, diventando quello che noi viviamo quotidianamente oggi. Merito di questo cambiamento va dato al designer Brooks Stevens che, non volendo rinunciare alla qualità nei propri prodotti, decise di cambiare target, puntando più sulla voglia del consumatore di seguire la moda e stare al passo coi tempi.
In pratica aumentò la produzione semplicemente progettando modelli sempre nuovi che potessero solleticare l’appetito dei clienti al punto da fargli pensare che la versione in proprio possesso fosse obsoleta e dovesse essere cambiata, quando la realtà era ben diversa.
Non è un caso che con questa interpretazione del termine vada a braccetto con un’altra colonna portante della nostra società consumistica: la pubblicità.
Basta pensare all’immenso mercato degli smartphone per avere il più fulgido esempio di questa accoppiata vincente. Brooks Stevens sarebbe fiero di loro.
Alcuni esempi:
- Negli anni quaranta i chimici impiegati presso l’azienda DuPont crearono delle calze femminili in nylon che riscossero un successo clamoroso perché molto durature e soprattutto resistenti. Il successo tuttavia durò poco visto che la stessa azienda obbligò gli stessi chimici a indebolire la fibra visto che il prodotto così ben riuscito era diventato nemico degli affari;
- Nel 2003 ci fu una class action contro Apple, accusata di aver concepito per i propri iPod delle batterie non rimovibili dalla durata di soli 18 mesi. L’azienda fu costretta a risarcire diversi clienti, a rendere sostituibile la batteria dell’iPod e ad estendere la garanzia del prodotto;
- Nello stesso anno alcune stampanti Epson erano progettate per avvisare il consumatore che l’inchiostro all’interno delle cartucce era terminato quando in realtà ve n’era ancora tanto a disposizione;
- Nel 2018 Apple e Samsung sono state multate per obsolescenza programmata perché hanno costretto i possessori rispettivamente di Note 4 e iPhone 6 a installare degli aggiornamenti senza avvisarli delle possibili conseguenze, sfociate in diversi malfunzionamenti sui due modelli;
Per quanto dal punto di vista etico possa sembrare ingiusta, l’obsolescenza programmata è alla base della nostra economia, adesso più che mai. Moltissimi centri commerciali, industrie e negozi probabilmente non esisterebbero, e di conseguenza nemmeno tantissimi posti di lavoro.
Fortunatamente anche le istituzioni iniziano a muoversi, nel 2022 la comunità europea, come spiegato in questo articolo, dice basta agli smartphone che durano massimo 3 anni
L’obsolescenza programmata e l’ambiente
Il vero svantaggio di tale pratica è l’inquinamento ambientale. La maggior parte delle aziende non prevede un programma di smaltimento dei prodotti sostituiti, per cui ci si limita a considerarli di seconda mano ed inviarli a Paesi sottosviluppati, dove però la quasi totalità di essi risulta inutilizzabile.
Anche un piccolo gesto può scatenare un cambiamento, per cui se volete sottrarvi a questa ingiustizia etica e ambientale, potete farlo valorizzando il mercato dell’usato per evitare gli sprechi e tappandovi le orecchie quando una pubblicità cerca di abbindolarvi con un nuovo modello rivoluzionario e miracoloso in cui l’unica vera rivoluzione sta nel prezzo sempre più alto.